Che disco assurdo. Era da un po’ che non ascoltavo qualcosa di così folk/dark/gotico centrato. Ovvero non troppo derivativo, con una sua originalità. O quel gotico ammorbante che ogni tanto mi ritrovo ad ascoltare.
Un’opera che sembra emergere dal tempo, intrecciando radici folk gallesi con un’aura di sperimentazione intensa e rarefatta. Le sonorità evocano un’atmosfera quasi sacra, in cui malinconia e introspezione si fondono in brani che sembrano rituali sonori.
Il disco ha una forza evocativa che ti travolge, portandolo in luoghi remoti, tra nebbie e antiche memorie. Un’esperienza d’ascolto intima, che richiede di essere vissuta senza fretta, svelando la sua bellezza fragile e misteriosa strato dopo strato.
Gli arrangiamenti ruotano attorno a pochi elementi essenziali, che si ripetono con variazioni sottili per creare un effetto ipnotico. L’arpa celtica, suonata con tocco delicato, costruisce la spina dorsale melodica di molte tracce, mentre il violoncello aggiunge profondità emotiva con linee che oscillano tra il dolente e l’etereo. L’harmonium e i sintetizzatori analogici forniscono una tessitura sonora sospesa, creando un senso di spazio e tempo indefinito. La percussione è ridotta all’essenziale: tamburi profondi e battiti secchi che evocano un senso di rituale arcaico. A questi si aggiungono field recordings, come suoni di vento, passi sull’erba bagnata o l’eco di voci lontane, che amplificano l’atmosfera immersiva del disco.
Tutto molto bello, tutto molto minimale ed evocativo. Un disco da ascoltare e da cui farsi ammaliare, ma indubbiamente non per tutti. Sicuramente le melodie, benché presenti, non sono immediate. Il disco in generale è molto cupo ed ermetico. Ma se si riesce a connettersi con il codice lirico e poetico del disco la sua bellezza è innegabile.
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